giovedì 15 settembre 2016

DIALOGHI IMMAGINARI - GENTE DEL NORD (DUE)


Quando entrammo a Kilkie fummo accolti dalla nostra gente in festa. Il nostro arrivo era stato annunciato dai ricognitori, il ritorno di guerrieri illesi e vittoriosi era sempre motivo di grande gioia: significava afflusso di ricchezze, che spesso si traducevano nella possibilità di passare un inverno tranquillo, con buon cibo sulla tavola e molte pelli calde nei giacigli.
La guerra col regno di Lokturn durava da molti anni. C'erano non più di una, due spedizioni all'anno, lontane dai giorni della semina e del raccolto, ma era comunque costata molte vite e molte risorse ad entrambi i popoli. Mio padre era stato una di queste, essendo morto in battaglia e con onore quando avevo 14 anni. Il fuoco della sua pira, contrariamente al solito, aveva bruciato per giorni e giorni. L'indovino aveva detto che era segno della benevolenza di Odino: mio padre era stato accettato al cospetto degli Dei e io ne ero immensamente fiero. Lo immaginavo seduto a una grande tavola con un infinito banchetto, bicchieri d'oro e pietre preziose ricolmi di birra e idromele, e sidro, e me lo figuravo brindare alla salute della sua gente con il possente Thor. Ero certo che mi guardasse, in qualche modo, forse la casa di Odino aveva finestre? E speravo di renderlo orgoglioso di me quanto io lo ero di lui.
A quei tempi avevo già cominciato il mio addestramento come guerriero ed ero piuttosto desideroso di mostrare il mio valore, oltre che bramare la vendetta per mio padre, ma dovettero passare altri 4 anni perchè potessi partire per la mia prima spedizione. Negli anni in cui morsi il freno, mi occupai come meglio potei della mia famiglia: mia madre e i miei due fratelli più piccoli. Lavoravo come carpentiere, o come contadino a seconda delle stagioni, mentre mia madre si era messa a servitù nella casa della regina. I miei fratelli minori, beh, era già molto che non si cacciassero in qualche serio guaio mentre noi eravamo fuori casa per lavorare.
Il lavoro manuale mi piaceva. Amavo il profumo delle messi mature, e nella breve stagione calda, stare sotto il sole ogni giorno era una autentica benedizione, ma ero veramente felice solo quando lavoravo il legno. Avevo cominciato intagliando qualche piccolo utensile per mia madre, e qualche giocattolo per i miei fratelli ed ero rapidamente diventato il miglior artigiano di Kilkie. L'inverno precedente alla mia prima spedizione avevo realizzato una sedia talmente pregevole che la Regina la utilizzava come trono, e mi aveva pagato una somma considerevole in oro, con la quale avevo acquistato cibo per settimane. Avevo sempre sospettato che ci fosse lo zampino di mia madre, nella decisione della sovrana, ma era comunque un lavoro di cui andare orgogliosi.
Non tanto orgogliosi quanto del mio ruolo di guerriero, comunque. Ero un ragazzino in preda alla smania di sangue, ero cresciuto con l'idea fissa di vendicare mio padre, alimentata dagli uomini della tribù, e una volta in marcia con gli altri guerrieri mi ero sentito parte di qualcosa di grande e di glorioso. Anelavo l'approvazione degli Dei, pregavo il padre Odino ogni notte di concedermi coraggio ed ardimento,  ero disposto a dare la mia vita, purchè potessi avere una morte onorevole e rivedere mio padre. A volte mi pareva di non desiderare altro, e allora uscivo, di notte, con la mia spada in pugno, e mi esercitavo fino a quando i miei muscoli tremanti non riuscivano più a sorreggerla e mi cadeva dalle mani. La mia mente si calmava soltanto quando prendevo in mano il mio coltellino da intaglio. Allora, trovavo qualche ora di pace.
Non mi ero mai fermato a pensare a mia madre, a cosa avrebbe provato perdendomi, o cosa avrebbero fatto i miei fratelli privati anche della traballante guida che la mia giovane età poteva offrire loro. Per mia fortuna, o sfortuna, ci avevo messo ben poco a comprendere la vera natura della mia nuova condizione di guerriero. Terminata vittoriosamente la mia prima battaglia, mi ero guardato attorno ancora grondante di sudore e sangue in cerca della gloria, ma in mezzo ai corpi trucidati dei miei nemici, avevo trovato solo morte, paura, puzza e merda. Nella morte non erano più nemici: erano soltanto uomini e ragazzi come me, che non avrebbero mai più rivisto le proprie famiglie. Io ero stato acclamato come il miglior giovane guerriero dai tempi di Sigfrido, avendo ucciso ben 17 uomini senza riportare nessuna ferita, ma una volta esaurita l'esaltazione della battaglia, i miei occhi avevano continuato a vedere solo il panico delle mie vittime al momento del trapasso. Ho ucciso molti altri uomini da allora, e in ognuno di essi ho scorto quello sguardo incredulo e disperato, negli ultimi istanti prima che la mia lama uscisse dai loro corpi lasciandoli indifesi e sanguinanti. Continuerò a farlo, perchè siamo in guerra ed è mio dovere, ma ho smesso quel primo giorno di illudermi che questo mi renda onore.


Chiaramente questa consapevolezza non era condivisa dal mio popolo.
Due ali di persone ci accolsero con grida entusiaste al nostro rientro, benedizioni di ogni sorta piovevano sulle nostre teste stanche e altrettanti insulti, e qualche sputo, erano rivolti ai prigionieri. Vidi mia madre e i miei fratelli a lato della strada e rivolsi loro un breve cenno, senza scompormi, con lo sguardo sempre fisso davanti a me, con la dignità richiesta a un guerriero di ritorno alla sua casa. Gli schiavi procedevnao in fila davanti a noi, gli uomini davanti e le donne dietro, e vedevo la schiena di Alyssa che si chinava verso Viki confortandola ogni pochi passi. La sua postura, il suo modo di muoversi, lasciava chiaramente intendere che fosse spavantata lei stessa, e tuttavia non esitava a occuparsi della sua giovane compagna. Ci avevo visto giusto, dunque. Era davvero un capo.


Lasciammo i cavalli davanti al palazzo del Re, ed entrammo tutti nella sala del trono, dove eravamo attesi. Il re e la regina stavano sui loro scranni, vestiti riccamente e ingioiellati per l'occasione, in attesa di conoscere l'esito della nostra spedizione e di constatare il valore del bottino. Come di consueto, il forziere con le monete e i gioielli venne aperto ai loro piedi, così come ai loro piedi vennero poste le armi requisite al nemico, un bottino forse ancora più prezioso dell'oro dopo anni di guerra. Dietro al forziere vennero allineati i prigionieri ridotti in schiavitù, uomini e donne.
Il Re era un uomo valoroso e di poche parole. Aveva combattuto insieme ai suoi guerrieri finché l'età glie lo aveva consentito, e poi aveva mandato in battaglia suo unico figlio, principe ed erede. Dopo aver messo le mani nel forziere e fatto scorrere i preziosi tra le dita in segno di approvazione, aveva rivolto la sua attenzione alla parte umana del bottino. Ad un suo cenno, tre prigioniere tra cui Alyssa
erano state portate al suo cospetto. La regina aveva stretto le labbra mentre il Re le esaminava con evidente approvazione. Non mi sorpresi quando Alyssa fu scelta e scortata via da alcune ancelle, che l' avrebbero lavata, profumata e vestita (moderatamente) perchè dividesse il letto del  re quella sera stessa.


Come può una moglie accettare che suo marito dorma con altre donne così apertamente, non facendone mistero davanti a tutta la corte? E' pur vero che la regina aveva avuto un solo figlio, ed era ormai in età da essere sterile, e poichè il principe veniva con noi in battaglia, il rischio che il regno restasse senza un erede era piuttosto concreto. Certo Orrik voleva assicurarsi una numerosa discendenza, anche illegittima, per il bene del regno. Forse era questo che spingeva la regina Farsya a sorridere benevolmente alle giovani amanti del marito, anche se per il momento nessuna di esse aveva partorito un figlio al re. La cosa mi colpì, non per la prima volta. C'era forse una maledizione che impediva la nascita di altri principi? Il Re aveva forse offeso gli Dei in qualche modo? Improvvisamente compresi che nonostante tutti incolpassero la regina per la mancanza di eredi, la causa non poteva essere lei. Doveva essere il Re. Dopotutto era poco probabile che sia Farsya che tutte le amanti di Orrik fossero, per coincidenza, sterili. Poteva dunque un uomo essere incapace di generare? Era possibile che un valoroso guerriero come il re avesse un seme troppo debole per dar frutto nel ventre di una donna? Come uomo, tremai a quel pensiero. E, se avevo ragione, era giusto che Farsya venisse umiliata per una colpa non sua?  Rivolsi mentalmente una breve preghiera a Freya, perchè sostenesse la regina e perchè mi concedesse la grazia di non dover mai scoprire di persona se le mie teorie fossero esatte.


Rividi Alyssa quella sera stessa, al banchetto, e devo confessare che per un attimo non riuscii a trattenere il fiato nei polmoni. Era stata abbigliata con una tunica chiara, trasparente, che lasciava ben poco all'immaginazione. E in quella sala, potete giurarci, di immaginazione ce n'era parecchia. I capelli erano stati acconciati in morbide trecce che scendevano sulle spalle nude, e in mezzo ai seni
collane di conchiglie mandavano piccoli bagliori, come per attirare l'attenzione su quella deliziosa rotondità, se mai ce ne fosse stato bisogno. Il re la sfoggiava come un gioiello della sua corona, e non notava, o non si curava, dello sguardo ferito della regina. Gli uomini al rientro da una battaglia bramano possedere una donna il prima possibile, non solo per la lunga astinenza, ma per confermare a se stessi di essere vivi, di essere sopravvissuti. Avevo sempre pensato che ci fosse una sorta di contrapposizione tra la morte che avevamo dispensato in guerra e la vita che avremmo potuto dispensare spargendo il nostro seme... sempre che non fossimo sterili. La mia mente formulò quel pensiero prima che potessi impedirlo.
Comunque fosse, io non facevo certo eccezione. Guardavo Alyssa fremendo, con meraviglia e desiderio, e mi sentivo più famelico che se avessi avuto davanti Freya stessa, nuda ed invitante. Cercavo di identificare le curve del suo corpo sotto la tunica ma lei stava immobile, e questa cadeva dritta senza appoggiarsi ai suoi fianchi, ne' alle sue cosce, che bramavo esplorare. L'avrei presa, oh si, l'avrei presa con violenza, l'avrei tenuta inchiodata sotto di me fino a che non avesse avuto più fiato. Stringevo convulsamente i pugni, per impedirmi di alzarmi e mettere in atto il mio proposito li, davanti a tutti, sulla tavola del re.  Il suo sguardo era affilato, dritto come la lama di un pugnale, non tradiva la minima paura, ne la più minuscola parvenza di sottomissione. Quella donna scatenava in me in egual misura il desiderio di possederla e di domarla.
Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, cosa che mi provocava dolorosi spasmi, anche mentre le molte prostitute che prendevano parte al festino mi offrivano i loro servigi. Il maiale arrostito mi andò per traverso quando il Re prese Alyssa poco elegantemente per le natiche conducendola verso la propria camera da letto, tra gli schiamazzi e gli applausi, e me ne andai, eccitato ed avvilito, alla ricerca di una soddisfazione più alla mia portata.



Nessun commento:

Posta un commento